Itinerario Gaginiano: Polizzi – Petralia Sottana – Petralia Soprana – Gangi – Geraci Siculo – Pollina
L’itinerario turistico religioso che si consiglia al pellegrino alla ricerca di un’interiorità religiosa e culturale ed alla scoperta delle opere dei Gagini, individua un percorso definito lungo l’asse di percorrenza della Via Francigena per le Madonie, ma che può essere percorso anche per tappe distinte.
DESCRIZIONE DELL'ITINERARIO
Prima tappa dell’itinerario dei Gagini è Polizzi Generosa e la sua Chiesa Madre, dove al suo interno si possono ammirare i resti della splendida Arca marmorea di San Gandolfo, patrono della città, commissionata a Domenico Gagini nel 1482, per custodirvi i resti mortali del santo.
Nel suddetto luogo sacro vengono conservate: il grande ostensorio stazionale in argento del 1586 di cm. 160 in altezza, di fattura artistica per mani di Nibilio Gagini, l’Urna reliquia in argento di San Gandolfo, raffigurante il beato San Gandolfo da Binasco realizzata tra il 1549 ed il 1632 sempre ad opera di Nibilio Gagini e di altri artisti operanti nella bottega, la Cona marmorea che ha visto l’intervento di Antonello Gagini e la Vergine con il Bambino, datata 1473 e la statua marmorea di Santa Margherita, entrambe quest’ultime del grande maestro capostipite Domenico Gagini.
La seconda tappa è la visita al Santuario di Madonna dell’Alto sul monte San Salvatore, a circa 1827 metri di altitudine, dove secondo legenda, la Madonna (dell’Alto), statua marmorea di Domenico Gagini e della sua bottega, datata 1471, ha condotto i suoi portatori e dalla quale non riuscivano a staccarsi per il bisogno di erigervi la chiesa.
La terza tappa dell’itinerario è Petralia Sottana, nella quale si trova la Chiesa della SS. Trinità alla Badia, all’interno della quale è possibile ammirare la maestosa Ancona d’altare dalle dimensioni di cm. 1100 x 600 che raffigura la vita di Gesù Cristo ad opera di Giandomenico Gagini ed altre opere dei gagini ed autori vari.
Attraversando la cittadella e salendo lungo la pineta, il pellegrino si trova nella quarta tappa ossia nella vicina Petralia Soprana dove nella Chiesa di Santa Maria di Loreto, troverà l’Ancona marmorea con scene della vita di Gesù, dalle dimensioni di cm. 320 x 230, attribuita a Giandomenico Gagini, il Ciborio dagli inizi del XVI secolo, raffigurante Cristo risorto, i dodici Apostoli, la Madonna in trono e gli angeli adoranti, opera attribuita alla Bottega dei Gagini ed ubicata nella Chiesa del SS. Salvatore,.
Infine si possono visitare opere di ignoti scultori gaginiani come la Madonna dell’Udienza del 1520, statua in pietra di cm. 115 e la Madonna del Loreto della fine del XV sec., nella Chiesa Madre dei Santi Pietro e Paolo.
Il percorso prosegue verso la quinta tappa che è Geraci Siculo, dove visitiamo la Madonna con il bambino, statua marmorea di cm. 200 datata 1475, ubicata nella Chiesa Santa Maria La Porta ed attribuita a Domenico Gagini e sua bottega, nella quale si evidenziano: la sensibile modellazione della superficie plastica, tipica dell’artista, la mite dolcezza e stesura pittorica, accentuata dalle dorature stilisticamente tipiche della bottega.
Altra statua marmorea della Madonna con il bambino, dei primi decenni del XVI sec. della bottega di Domenico Gagini, si trova nella Chiesa Madre di Santa Maria Maggiore, nella quale sono marcati i caratteri dell’ovale del suo viso, del fluttuante panneggio della veste ed il Bambino, mentre la statua della Madonna del Pettirosso, datata post 1561, attribuita da alcuni a Domenico Gagini, da altri alla sua bottega ed altri ancora ad Antonello Gagini, è stata ordinata da Giovanni Ventimiglia e dei giurati dell’Universitas, che conserva le tracce di colore blu originario nei risvolti delle maniche della veste e del manto e decorazioni auree e floreali, tipiche della bottega.
Infine si segnalano due Ancone d’altare, la prima, datata secondo quarto del XVI sec. è ubicata nella Chiesa di Santa Maria La Porta è attribuita alla bottega dei Gagini ed a Giandomenico Gagini, che raffigura l’Adorazione dei Magi, la Presentazione di Gesù al Tempio e la Fuga in Egitto, la Natività e l’Annunciazione, l’altra, della metà XVI sec. è attribuita alla bottega di Antonello Gagini e si trova nella Chiesa San Bartolomeo, un polittico dalle dimensioni di cm. 800 x 360 e costituito da tre nicchie impreziosite con motivi a candelabra ed angeli regicolonna nelle quali sono contenute le statue della Vergine con il Bambino e dei Santi Bartolomeo e Giacomo, rispettivamente patrono e protettore di Geraci Siculo.
Sesta ed ultima tappa è Gangi, nella quale si consiglia di visitare la Chiesa Madre di San Nicolò, per ammirare la Madonna con il bambino, statua in marmo di cm. 130 datata 1540 e commissionata a Giacomo Gagini, terzogenito di Antonello, dapprima denominata Madonna della Vittoria, per la vittoria della flotta cristiana contro gli ottomani, ottenuta per intercessione della vergine nella battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571 e successivamente, per volere di papa Pio V del 1572 che ha istituito la festa per celebrare l’evento poi ribattezzata dal suo successore Gregorio XIII, in festa del rosario da cui prese anche il nome la Madonna.
Il percorso cittadino porta alla Chiesa San Cataldo, dove si trova ubicata la statua di San Cataldo vescovo, datata terzo quarto del XVI sec., attribuita a Giandomenico Gagini, per analogia con l’immagine del santo scolpita a rilievo sulla cona marmorea della chiesa di San Cataldo di Enna datata 1562. Per concludere tra le opere minori ma non di minore pregio, si può apprezzare: l’Acquasantiera in marmo bianco, ubicata all’ingresso laterale della Chiesa Madre di San Nicolò, una fonte circolare caratterizzata sul margine esterno ed in corrispondenza degli assi, da quattro testine di putti dai lunghi capelli e nella parte convessa decorata con scanalature “ad unghia” confluenti verso la colonna, cha ha andamento a candelabbra su base quadrangolare e decorata con foglie d’acanto e motivi vegetali. Altra opera minore è il Rilievo murario della Madonna con il bambino del XVI sec. ed attribuito ad ignoto scultore gaginiano, ubicato nella Chiesa Madre di San Nicolò ed il Rilievo di San Sebastiano della prima metà XVI sec. anch’esso attribuito ad ignoto scultore gaginiano, ubicato nella Chiesa Madre di San Nicolò ed infine l’Acquasantiera della metà XVI sec. nella Chiesa Santa Maria della Catena, attribuita alla bottega gaginiana, composta da due parti non omogenee tra loro, il fonte in marmo bianco e la colonna in pietra, con la presenza in corrispondenza degli assi, di quattro testine di putti intervallate da scanalature che si estendono a tutta la parte inferiore oltre ad uno scudo ovale quasi abraso.
NELLE VICINANZE DELL'ITINERARIO
Da non perdere nelle vicinanze di questo itinerario… Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Ut elit tellus, luctus nec ullamcorper mattis, pulvinar dapibus leo.
Caricamento delle mappe in corso - restare in attesa...
I GAGINI, LA STORIA
Storia della famiglia Gagini
L’elenco dei Gagini è davvero lungo ed è costituito dai nomi di Nibilio Gagini, Giuseppe Gagini, Fazio Gagini, Vincenzo Gagini, Antonino Gagini oltre agli artisti che operavano nella bottega come Giorgio da Milano, Mancino Andrea, Mancino Giuliano e Vanella Antonio.
L’approdo del bissonese Domenico Gagini in Sicilia è incerto e sembrerebbe datato tra il 1458 ed il 1463, dopo una formazione iniziale in stile tardo–gotico lombardo, di un’esperienza fiorentina con Brunelleschi e la formazione definitiva, nel cantiere di scultori di Alfonso d’Aragona in Castelnuovo a Napoli.
Domenico Gagini, capostipite di una dinastia di scultori, architetti e argentieri, si trasferì a Palermo al quartiere della Kalsa intorno al 1463, il rapido e ampio consenso sull’isola, secondo lo storico Benedetto Patera, venne ottenuto per “l’aspetto gradevole delle sue opere e particolarmente per le Madonne, pittoricamente mosse e assai gradite da parroci e fedeli di provincia”.
L’incerta data di arrivo del Gagini in Sicilia, induce a ricostruire la loro esistenza con l’ausilio di documentazione e testimonianze certe, al fine di giungere anche alla datazione delle loro opere ed allo stanziamento delle maestranze di bottega sulle madonie.
Per fare ciò si è fatto riferimento anche alla narrazione del ritrovamento della statua di Nostra donna dell’Alto (Madonna dell’Alto) a lui attribuita, che porta inciso a numeri romani sulla base della statua il 1471, ed agli indizi documentali che circondano la vicenda, la quale narra, con sapore di miracoloso, che la statua ha a girovagato, dopo il ritrovamento alla ripa di mare nella Roccella, per Termini, Collesano, Polizzi, senza volersi fermare in nessuno di queste località fino a condurre i suoi portatori su quell’altura, dalla quale non riuscivano a staccarsi e dove venne edificata la chiesa.
Il ritrovamento della statua alla ripa della Roccella, trova giustificazione nel percorso che, intorno al Quattrocento e Cinquecento, veniva seguito dalle merci specie di una certa caratura e se a cavallo o con carri trainati da buoi o bestie da soma, che dalle vie costiere si inoltrava nell’entroterra madonita, seguendo la trazzera che da Campofelice si inerpicava a Collesano, si diramava per Polizzi fino a Gangi passando per le Petralie.
È ormai risaputo dagli studi storici, dell’influenza e lo stretto legame che univa i centri madoniti al palermitano tra il quattro e cinquecento, alle commissioni che un certo ceto contraeva ed alla preferenza di trasportare opere d’arte, sculture e manufatti di peso rilevante tramite il cabotaggio costiero sino a taluni specifici approdi, per proseguire a destinazione con l’uso di carri trainati da buoi o bestie da soma.
Motivo per cui Roccella, praia di mare di Campofelice, diventava un punto fondamentale di arrivo e di sosta prima di inerpicarsi per la trazzera che attraversa Collesano e Polizzi giungendo fino a Gangi passando per le Petralie. È questa la via che per decenni ha garantito l’arrivo di trittici e polittici, statue di marmo, che ancora oggi riempiono le Chiese madonite.
Domenico Gagini, stanziatosi sulle Madonie ha caratterizzato la sua arte nel modo che intendeva di fare scuola, abbinando gli scultori-artisti alle maestranza dei marmorari e muratori, Maniera che si è diffusa su tutto il comprensorio madonita almeno fino al 1520 e successivamente sviluppatasi nella Maniera più moderna del figlio Antonello, dei nipoti e pronipoti, che per non trascurare le molteplici richieste di commessa hanno ripercorso l’impronta scultorea dei loro predecessori, al contrario delle opere in argento, ritenuti di notevole prestigio, realizzate da Giandomenico a Nibilio.
Il Gagini ha voluto coniugare la bottega alla scuola operativa, svolgendo così la propria arte in tutto il territorio siciliano; Vi è traccia di loro dal “ Vallo di Mazara, al Vallo di Demenna fino al Vallo del Noto”. Furono poi gli scultori, artisti-artigiani locali che, dagli anni venti del cinquecento in poi, diffusero le maniere di Domenico Gagini e ancor più del figlio Antonello, scultore dalla forte personalità artistica moderna.
L’impronta artistica della scultura dei Gagini in una Sicilia Aragonese in generale e nell’entroterra madonita in particolare, costituì certamente una novità per il nuovo gusto di sapore Rinascimentale che Domenico ha acquisito con la scuola fiorentina prima e Napoletana poi, con il superamento di una cultura figurativa ancora salda al tardo gotico internazionale. Con il passare del tempo questi nuovi venti si raggelarono nel bozzolo degli interessi e negli schemi ripetitivi della bottega (putia), penalizzando l’aspetto innovativo e l’arte creativa dei gagini.
Le opere dei Gagini e della loro scuola, con riferimento alle sculture, sono caratterizzate da dorature su alcune zone quali la superficie delle vesti e dei manti al fine di simulare il motivo sontuoso dell’ “estofado” e la cromia in azzurro dei risvolti. L’effetto cromatico rientra sin dall’origine nell’appropriazione personale e di fruizione visiva di una scultura marmorea, prescindendo del dato di fatto di trovarsi di fronte ad una singola statua o ad un complesso di più vaste dimensioni, mentre per gli argenti, ed in particolare per le Custodie Eucaristiche realizzate a fine 500 da Nibilio, sono evoluzione delle custodie parietali di marmo realizzate dai tanti Gagini fin dalla fine del quattrocento e così curate da essere state definitive “meraviglia all’occhio nostro“.
I GAGINI, ELENCO
Originario di Bissone, sul lago di Lugano e capostipite della celebre famiglia, giunge in Sicilia, si ipotizza dalle testimonianze circa la sua presenza tra il 1458 ed il 1463 e vi rimane fino alla morte. Dopo una formazione iniziale in stile tardo – gotico tra i maestri campionesi (lombardi) ed una prima esperienza fiorentina, tra il 1444 ed il 1446, con Filippo Brunelleschi, ha iniziato a svolgere la sua documentata attività lavorativa, tra il 1448 ed il 1456, nei cantieri del duomo di Genova per la realizzazione e decorazione della Cappella di San Giovanni Battista e nel cantiere di scultori di Alfonso d’Aragona in Castelnuovo a Napoli.
Figlio di Domenico ed il maggiore scultore siciliano del Cinquecento, nasce a Palermo ed è documentato per la priva volta a Messina nel 1498 mentre il suo rientro a Palermo è datato 1508. Tra le opere di maggiore prestigio, si ricorda la Madonna della Scala nella sacrestia del Duomo palermitano datata 1503, il suo rientro definitivo a Palermo nel 1508 lo vede impegnato con l’opera che lo occuperà per tutta la vita anche se a periodi alterni, la Tribuna della Cattedrale. Diverse sono le opere a sua firma e sparse per tutta la Sicilia.
Figlio primogenito di Antonello e della prima moglie, Caterina di Blasco, si ritiene sia nato a Messina intorno al 1503. Lavora nel laboratorio (putia) del padre fino alla morte in collaborazione con i fratelli Antonino, Giacomo e Fazio.
Allo scultore sono stati attribuiti diverse statue sparse per tutta la Sicilia, inoltre è ricondotto a lui il grandioso Retablo della chiesa della Badia di Petralia Sottana costituito da 23 rilievi raffiguranti le Storie della vita di Cristo e viene citato per la qualità del marmo impiegato in una commissione per la realizzazione di una ancona da realizzarsi nella Chiesa Madre di Polizzi.
Per analogia stilistica gli vengono attribuite l’ancona della chiesa di Santa Maria di Loreto a Petralia Soprana ed a Polizzi la Madonna con bambino del 1557 nella chiesa di San Girolamo.
Primo figlio di Antonello e della seconda moglie, attivo in diversi centri siciliani, completa alcune statue iniziate dal padre e nel 1536 lavora alla paterna tribuna della Cattedrale di Palermo realizzando alcune statue tra cui i Santi Damiano, Stefano e Sebastiano. Giacomo lavora anche a Trapani presso il Santuario dell’Annunziata e ad Alcamo dove realizza la Madonna del Soccorso. A lui si attribuiscono alcune opere del comprensorio madonita tra cui la Madonna con il bambino di Gangi.
LE PRINCIPALI OPERE DEI GAGINI
L’Arca marmorea di San Gandolfo, patrono della città, fu commissionata a Domenico Gagini con atto del 1482, dai maggiorenti della città (Giurati e Matteo de Machono – procuratore della cappella del santo) per custodirvi la cassa di legno con i resti mortali, dopo il rinvenimento nel 1320.
La scultura delle dimensioni di ml. 3,35 (13 palmi) in altezza e ml. 1,55 (6 palmi) in larghezza, da collegarsi sopra l’altare della cappella del Santo nella Chiesa Madre, era composta da una predella nella quale era raffigurata in mezzo la beata Vergine Maria della Pietà attorniata dai dodici apostoli nella parte superiore quattro angeli ben visibili scolpiti a tutto tondo e sollevati da tre serafini scolpiti a mezzo rilievo e sul coperchio della custodia era scolpita l’immagine del beato Gandolfo (così come da “lu disegno“ prodotto dall’artista) con le mani giunte e la testa poggiata su un guanciale riccamente decorato, ad arricchimento figurativo del drappo del cataletto, le pareti laterali scolpite con immagini ben rifinite, su tutte le parti e raffiguranti scene salienti della vita del Santo: la folla intenta ad ascoltare la predica del Santo in Matrice per la Quaresima, il Trasporto dell’Arca e la Venerazione dei fedeli, la processione lungo le mura medioevali di Polizzi, il baldacchino agitato dal vento, i portatori stanchi, lo zoppo con le grucce ai piedi della tomba, il gruppo delle donne con le loro mantelle, l’omino dall’abito quattrocentesco.
L’opera sembrerebbe originariamente collocata sulla sommità dell’altare ed in posizione obliqua per essere ammirata dal basso garantendo una visuale, fu smontata per i lavori di rifacimento della chiesa del 1764 e parzialmente ricostruita, negli anni settanta del Novecento, per le parti di essa andate perdute e mai recuperate con la perdita dell’antico splendore.
L’opera in argento del 1586 dalle dimensioni in altezza di cm. 160, è rappresentativa delle nuove tendenze e totalmente ispirata al manierismo classicheggiante, indiscutibilmente attribuita a Nibilio Gagini come testimonia la firma e la data sull’orlo dell’elegante base mistilinea nella quale è stata anche incisa il nome del committente, certo Leonardo Cirillo.
La struttura tradizionalmente tardo-gotica dei grandi ostensori stazionali è aggiornata con motivi rinascimentali che valorizzano uno sviluppo plastico e scenografico con un grande nodo ottagonale al centro del fusto, con nicchie a conchiglia scandite da colonnine con capitelli corinzi, dove si collocano le figure dei quattro Evangelisti e dei Padri della Chiesa.
Più su è stato riprodotto il Cenacolo, raffigurante la Cena Eucaristica con Cristo e gli Apostoli seduti a mensa, sorretto da vento colonnine in stile corinzio con tre archi nel fronte e nel retro e due ai laterali, completato con da cornici e otto angioletti disposti lungo il suo perimetro, con in mano gli strumenti della Passione.
Sovrasta il cenacolo tra pregiati ornamenti un piano a rettangolo dove si erge con eleganza e bellezza un padiglione centrale quadrilatero su quattro colonne e arcate per il contenimento dell’ostia sorretto ai lati da due cherubini dentro due piccoli padiglioni laterali, sormontati da cupolette e teste di serafini.
Il genio si esprime nel fastigio terminale a coronamento dell’edicola centrale, così vicina strutturalmente alle antiche “vare” polizzane, ideando la bellissima urna sepolcrale ovoidale a spicchi sovrastata dal Risorto a tutto tondo.
L’innovativo stile ha consigliato l’artista nella realizzazione dei fregi e dei due scudi con scene a sbalzo e bulino della base romboidale ad andamento mistilineo.
L’Urna reliquia in argento di San Gandolfo, raffigurante il beato San Gandolfo da Binasco, patrono della città, si ritiene realizzata nel secolo corrente tra il 1549 ed il 1632, è collocata sul lato destro della cappella dedicata al beato, della navata laterale destra, della Chiesa Madre. L’opera commissionata ad Andrea di Leo viene attribuita, per le profonde differenze stilistiche e qualitative oltre che per gli evidenti svariati interventi graduali, ad artisti vari tra i quali Nibilio Gagini, Giuseppe Gagini, Giovanni Zuccaro.
I tempi lunghi per la realizzazione dell’Urna sono da addebitare anche alla peste del 1576 che ha causato gravi lutti ed una stasi dei lavori, si ritiene fino al 1579 quando su consiglio del vescovo Preconio, fu disposta la conservazione del teschio del Santo all’interno di una testa d’argento, si ritiene affidata per l’esecuzione all’argentiere più noto ed in voga a Palermo, l’artista Nibilio Gagini.
Allo stesso autore, impegnato a Polizzi nella realizzazione della custodia d’argento del SS. Sacramento, è stata attribuita la serie delle statuette degli Apostoli, per la foggia animata nella torsione dei corpi e per l’impianto solido, nove dei quali non risultarono consegnati fino alla sua morte e passati nelle mani del figlio Giuseppe e dei suoi collaboratori, i quali in prima istanza fornirono l’Annunziata e nel 1609 l’Angelo Annunziante e tre Apostoli.
Per ultimo furono realizzate le statuine dei SS. Francesco d’Assisi e Antonio di Padova, presenti in bottega e non consegnati alla sua morte.
E’ dell’agosto del 1632 la commissione a Giovanni Zuccaro, argentiere, che con Giuseppe Li Muli, allievo di Giuseppe Gagini, si impegnano a realizzare il busto del corpo d’argento di San Gandolfo, senza testa ma con le braccia e le mani (perché la testa già esistente e realizzata da Nibilio Gagini).
Gli studiosi ritengono che Andrea di Leo ha ricoperto di lamine d’argento l’antica cassa di legno, dove dal 1320 data del ritrovamento sono state deposte i resti mortali del Patrono, proponendo sulle fronti trapezoidale del coperchio, il motivo caro all’iconografia del Santo e tramandato dalle leggende agiografiche, dei tralci di gelsomino fuoriuscenti dal vaso e sui quattro lati il modulo delle nicchie intervallate da paraste a candelabra. Sormontato tutto ciò da una trabeazione continua eseguita con dentelli, teste di cherubini e protomi leonine a sbalzo realizzati sui pulvini di coronamento dei capitelli ed a fusione quelle sovrapplicate in corrispondenza della chiave dell’arco di ogni nicchia, che si ritiene applicate successivamente per coprire le giunzioni delle lamine assieme alle statuine argentee, ai mascheroni che fungono da supporto di base ed ai quattro pioli decorativi agli angoli che costituiscono i perni di avvitamento e sutura tra coperchio e cassa.
Cona marmorea collocata nella cappella dedicata al beato San Gandolfo della Chiesa Madre (Matrice) raffigura la Vergine con i santi Francesco d’Assisi e Antonio di Padova, proveniente dalla chiesa di Francesco e commissionata da Marino Notarbartolo a Giuliano Mancino e Bartolomeo Berettaro.
L’opera venne completata nel 1524, come indica la scritta, e secondo alcuni studiosi ha visto l’intervento di Antonello Gagini nella realizzazione del Poverello d’Assisi, per la strabiliante resa anatomica.
Raffinata statua marmorea della Vergine con il Bambino, datata 1473 ed attribuita a Domenico Gagini, è collocata sull’altare maggiore della Chiesa Madre nella cappella di San Giuseppe, un tempo dei Notarbartolo e detta dello Scuro, sul lato sinistro della statura di San Giuseppe con il Bambino.
Statua marmorea di Santa Margherita, di modeste dimensioni, attribuita a Domenico Gagini è collocata sul lato sinistro dell’altare maggiore è caratterizzata dai tipici attributi iconografici, quali il libro e la coda attorcigliata del drago che si presuppone alla fine del Quattrocento.
La statua marmorea della Vergine, di cm. 160, è datata 1471 come testimonia l’iscrizione incisa sulla base e si ritiene esemplata sul modello della Madonna di Trapani, riconosciuto superbo capolavoro della scultura tardo – gotica internazionale, ma si differenzia per due particolari iconografici che la arricchiscono: l’incrociarsi delle mani della Madre e del Figlio con l’aggiunta del frutto genesiaco, sorretto dal Bambino e per la mano destra del Figlio che le accarezza il seno parzialmente scoperto.
La statua culturalmente legata all’ampia produzione plastica di Domenico Gagini viene riconosciuta come prodotto della sua bottega, anche se presenta tutti gli stereotipi dei modelli del grande maestro, è mancante di quelle vibrazioni luministiche impresse alla materia da Domenico presentando al contrario una superficie liscia e levigata solcata da lunghe e ampie pieghe poco profonde.
La Madonna dell’Alto come comunemente viene chiamata la Vergine è oggetto di grande venerazione da parte degli abitanti dei centri madoniti che si conserva nel suggestivo santuario che si erge isolato sul versante meridionale del monte San Salvatore a circa 1819 metri di altitudine.
Il santuario ed il simulacro sono circondati da quel velo di mistero che fa riferimento alla leggenda che ha portato la statua della Madonna in quel luogo e del bisogno dei portatori di erigervi il santuario. Si narra che la statua, dopo il ritrovamento alla ripa di mare nella Roccella, ha costretto i portatori a girovagato per Termini, Collesano, Polizzi, senza volersi fermare in nessuno di queste località, fino a condurli su quell’altura dalla quale non riuscivano a staccarsi e dove venne edificata la chiesa.
L’ancona è descritta in un documentato del 21 febbraio 1543 con il quale viene commissionato un apparato decorativo per la Chiesa Madre di Polizzi Generosa così descritto “ da facere de pietra pirrerie Petralie, di quilla che si fichi la cona di la abbatia di petralia la sultana ” e tutta la storiografia siciliana la attribuisce a Giandomenico Gagini con l’intervento della bottega.
La maestosa ancona delle dimensioni cm. 1100 x 600, che domina l’abside della chiesa è suddivisa in ventitré riquadri che raffigurano la vita di Gesù Cristo e sono scanditi da tutti i motivi tipici della bottega di famiglia, come i candelabra sulle paraste, i fregi fitomorfi sulle prime due trabeazioni e le testine dei cherubini alati. I riquadri tutti delle stesse dimensioni ad eccezione di quelli centrali e dei cinque posti sull’ultimo registro in alto, si contano in dieci nei primi due e come detto, cinque nell’ultimo e conclude l’opera il timpano con la raffigurazione della Trinità tra testine di cherubini e angeli adoranti.
La lettura dell’opera non è appesantita dell’armonia e dalla plasticità dell’intera composizione, che raffigurano le scene di Cristo senza seguire un ordine logico e cronologico forse per le modifiche subite nel tempo ad eccezione di quelli centrali che rappresentano dal basso verso l’alto, la Crocifissione, la Resurrezione e l’Ascensione di Gesù, mentre dall’alto e scendendo sui lati sono rappresentate l’Annunciazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione di Gesù al Tempio, la Fuga in Egitto, Gesù tra i Dottori, il Commiato della Madre, l’Ultima cena, Gesù in preghiera nell’orto del Getsamani, il bacio di Giuda, l’Andata al Calvario, Gesù davanti a Pilato, Gesù davanti a Caifa, la Flagellazione, la Croce con i simboli della passione, il Compianto, la deposizione, la Pietà, l’incontro con la Maddalena e Gesù e salva i progenitori.
Sulla predella è raffigurato Cristo in Pietà con i Dolenti, i Dodici Apostoli e due santi, presumibilmente Francesco e Chiara.
Statua in pietra di cm. 115 si trova collocata nel primo altare della navata di sinistra della Chiesa Madre, è ancora incerta l’attribuzione dell’opera, ciò nonostante sono state poste a rilievo delle assonanze nell’impianto monumentale con l’espanso e avvolgente manto della vergine che si connette naturalmente alla sottostante struttura anatomica, con le opere mature di Antonello Gagini. Il linguaggio gaginiano di questa statua molte similitudini presenta con la Santa Maria Maddalena della Chiesa di San Francesco d’Assisi ad Alcamo per la leggera veste plissettata.
Quest’ultima si riallaccia alla Madonna dell’udienza, per il modo di articolare la parte inferiore del panneggio in prossimità della base oltre che per altre similitudini che fanno parte della storiografia della bottega o dell’ambito gaginiano. I moduli compositi tipici utilizzati dalla bottega, che dovevano assolvere alle numerose e replicate richieste della committenza, si leggono chiaramente nell’opera della Madonna dell’udienza.
Alla data odierna non sono emerse notizie della committenza, per come cita l’iscrizione presente nel basamento, che risponde al nobile Paolo Livirici che si ritiene possa essere un nobile del luogo.
La statua intitolata alla Madonna di Loreto per il particolare della Vergine, all’interno di un tempietto sostenuto da angeli, rappresentato nella basetta, che fa riferimento all’iconografia della Vergine trasportata dalla Terra Santa a Loreto.
La scultura viene attribuita con quasi certezza agli artisti operanti in Sicilia e spesso in collaborazione tra loro, quali Domenico Gagini, Andrea Mancino e Giorgio da Milano, quest’ultimo particolarmente richiesto sulle Madonie ed attivo fin dal 1503. Questi operanti in Sicilia nell’ultimo trentennio del XV secolo, hanno caratterizzato quell’”eclettismo manieristico” fondato sulla cultura gaginiana con riferimenti ai modelli lombardi, toscani e napoletani.
Notevole analogia stilistica si coglie con la Madonna di Loreto realizzata per la cappella Barbaro della chiesa di San Francesco a Marsala che è stata commissionata a Domenico Gagini insieme ad Andrea Mancino.
L’operare in comunione dei due artisti viene tra l’altro riscontrato nella Madonna di Naro, nelle cui forme affiora una certa involuzione del linguaggio maturo di Domenico Gagini, la sapienza costruttiva dei volumi viene mantenuta sebbene stereotipata nei volti della Madonna e del Bambino che si accomuna inoltre, con la Madonna della Catena di Gangi, per il modellato panneggio della vergine, la postura del Bambino che incontra la mano della madre e la capigliatura inanelata.
L’ancona marmorea di cm. 320 x 230 realizzata a decoro del presbiterio della chiesa, presenta un registro centrale quadripartito con scene della vita di Gesù, da sinistra l’Adorazione dei Magi, la Circoncisione, la Fuga in Egitto e Gesù fra i Dottori mentre al centro è collocata una statua della Madonna con il Bambino, presumibilmente di altro autore.
Nel registro superiore l’Angelo Annunziante a sinistra e la Madonna Annunziata a destra ed al centro la Natività di Gesù mentre al sommo all’interno della lunetta Dio Padre benedicente e nella predella i busti dei dodici apostoli. Anche la decorazione marmorea, dapprima attribuita ad altro autore, fu successivamente ricondotta a Giandomenico Gagini.
L’attribuzione dell’opera a Giandomenico, deriva dalle stringenti analogie stilistiche con la grandiosa cona marmorea, dallo stesso realizzata a Petralia Sottana, nella chiesa della Santissima Trinità o Badia su un’impianto generale degli spazi di Laurentana memoria. Una versione variata di dossale marmoreo, contaminata da motivi tardo-gotico, si può ritrovare nelle custodie del Sacramento di Polizzi Generosa, commissionate sul finire del XV secolo, si presume, a Giorgio da Milano, artista in stretto contatto con Domenico Gagini e del quale ne sentiva l’influenza.
Opera piuttosto diffusa nella Sicilia settentrionale, in particolare nelle Madonie e Nebrodi, nel tempo ampiamente manipolata ed a postumo collocata su una base mentre la sua collocazione, come lascia intuire la struttura dove è incassata e la posizione, porta a ritenere che è stata modificata e riposizionata a seguito dei lavori di ammodernamento dell’impianto chiesastico, stante ché, per la sua funzione dovrebbe avere una posizione di maggiore rilievo.
L’opera da ricondurre alla bottega dei gagini e databile agli inizi del XVI secolo, per gli stilemi che la caratterizzano e per l’intelaiatura architettonica che è costituita dalle paraste decorate con motivi a candelabra e per la trabeazione con testine di cherubini alati. Il ciborio ha un’impostazione piuttosto comune, in basso alla predellina viene raffigurato, Cristo risorto ed i dodici Apostoli, in alto la lunetta con la Madonna in trono e gli angeli adoranti ai lati ed al centro il consueto baldacchino che inquadrava il tabernacolo circondato dagli angeli.
Quest’ultimo è stato sostituito da una nicchia dove si trova la Madonna con il Bambino, che si ritiene realizzata, verosimilmente, da maestranze trapanesi nella seconda metà del XVII secolo a riproduzione della Madonna di Trapani che è anch’essa sostenuta da putti.
Statua in marmo di cm. 200, custodita presso la Chiesa Santa Maria La Porta, dall’inconfondibile tocco di Domenico per l’espressione serena del volto, i gesti del Bambino che regge il globo e poggia la mano sul petto della madre, appena sopra il cameo che ferma i lembi del manto cadente dolcemente in minute pieghe sul fianco. L’opera è adagiata su un basamento tronco piramidale di figure astanti alla Circoncisione che avanzano a semicerchio e vedono nella composizione centrale insegnamenti inobliati nell’amore, limitati da entrambe le parti da testine di cherubini.
Attribuita a Domenico Gagini ed altro scultore della sua bottega, la Madonna con il Bambino, si caratterizza stilisticamente per la sensibile modellazione della superficie plastica, tipica dell’artista e per la mite dolcezza e stesura pittorica, accentuata dalla dorature, parrebbe commissionata, come testimonia l’iscrizione nell’incisione basamentale in parte mutilata, dai Procuratori della chiesa (Fran)cesco Dagos(tara) e Pietro Gilardo, datata 1475.
La Madonna della Mercede o Madonna di Geraci presenta molte affinità con la Madonna della Neve della Chiesa Madre di Geraci Siculo, per l’ovale del suo viso, per il fluttuante panneggio della veste ed il Bambino.
L’opera della Vergine, da alcuni attribuita più alla scuola di Domenico Gagini che al maestro e datata nei primi decenni del XVI secolo e da altri alla bottega dei Gagini e datata fine del XV secolo, reca a conferma di una datazione più tarda, notevoli differenze con la Vergine della chiesa di Santa Maria La Porta di Geraci datata 1475 e per lo più attribuita a Domenico Gagini e bottega.
Sulla base ottagonale dell’opera sono scolpiti la Resurrezione, due testine di cherubini alate, due monaci in atteggiamento orante e uno stemma poco leggibile, inoltre è corredata da una predella, che si ritiene parte di un’opera perduta, che raffigura Gesù con i dodici apostoli e riferita a bottega Gagini.
L’opera della Madonna del Pettirosso, attribuita da alcuni a Domenico Gagini,da altri alla sua bottega, altri ancora ad Antonello ed anche alla bottega dei Gagini, conserva le tracce di colore blu originario nei risvolti delle maniche della veste e del manto e decorazioni auree e floreali. E’ collocata su una base ottagonale che raffigura nella parte frontale il Cristo risorto, due testine di cherubini alate ed ai lati, gli stemmi dei Ventimiglia e dei giurati dell’Universitas; Lo stemma dei Ventimiglia è stato identificato con quello di Giovanni Ventimiglia, figlio di Simone Ventimiglia Moncada e di Maria Antonietta Ventimiglia di Guglielmo, che prese in età minore l’investitura, 14 dicembre 1561, per la morte del padre.
Le analogie ricercate per datare l’opera ha trovato delle similitudini con la Madonna della Neve, attribuito alla bottega Gagini, datata terzo quarto del XVI secolo, posto 1561 data di investitura del probabile committente Giovanni Ventimiglia.
L’opera scultorea, analizzata da diversi scultori, viene attribuita alla bottega dei Gagini e commissionato, come da iscrizione “Simone Marchisi e Isabella Marchisa“, da Simone I Ventimiglia e Cardona che sposò Isabella Moncada, per cui sembra plausibile attribuire la sua datazione tra il 1500, anno in cui il Ventimiglia divenne Signore di Geraci ed il 1516, anno in cui ricevette la carica di Vicerè di Sicilia.
L’ancona presenta nel primo registro l’Adorazione dei Magi, la Presentazione di Gesù al Tempio e la Fuga in Egitto, mentre nel registro superiore si trova, al centro la Natività ed ai lati, dentro pannelli centinati l’Annunciazione alla cui “teofania” va riferito il gesto del Dio Padre onnipotente al centro.
I riquadri si presentano di varia dimensione e forma, sono separati da una trabeazione con testine di cherubini alati e da paraste che recano sobrie decorazioni a candelabra di palese ispirazione gaginiana. Quella laterale destra reca pure lo stemma dell’Universitas di Geraci che si presuppone possa essere intervenuta nella commissione dell’opera mentre quello posto sulla trabeazione appartiene alla committenza.
Nella predella, che presenta i segni della modifica, sono raffigurati i dodici apostoli ed ai lati, come testimonia anche l’iscrizione, i committenti.
L’opera è stata accostata all’ancona di della Chiesa di Santa Maria di Loreto di Petralia Soprana attribuita per lo più a Giandomenico Gagini per le affinità circa: la postura sbilanciata del Dio Padre nella lunetta conclusiva, l’analogia delle figure nella scena dell’Annunciazione, nelle grandi ali d’angelo, nel panneggio della veste della Vergine ed ancora nell’allungata figura del Bambino tra le braccia di San Giuseppe ma, soprattutto, nelle due formelle della Presentazione al Tempio e della Fuga in Egitto.
L’opera infine riprende modelli gaginiani molto vicini a Giandomenico anche per l’analogia con l’ancona di Petralia Soprana, a lui recentemente attribuita, per cui tra l’altro sembra inevitabile sopstare la datazione al secondo quarto del XVI secolo, anteriormente al 1543, data del decesso di Simone Ventimiglia.
Polittico delle dimensioni di cm. 800 x 360, che nel corso dei secoli a subito diversi interventi, è costituita da tre nicchie, intervallate da paraste impreziosite da motivi a candelabra e da angeli regicolonna sulla parte superiore, in esse sono contenute le statue della vergine con il Bambino e dei Santi Bartolomeo e Giacomo, rispettivamente patrono e protettore di Geraci Siculo.
Al di sopra della trabeazione con mascheroni e simboli dei quattro evangelisti, si trova la Pietà tra Maria Cheofe e Maria Magdala, mentre ai lati all’interno dei tondi l’Annunciazione ed a coronamento Dio Padre con in mano il globo terrestre attorniato da angeli e volute.
Nella predella infine si trovano le scene del martirio dei Santi Bartolomeo e Giacomo, di sapore manierista, al centro la Natività ed accanto i Santi Pietro e Paolo mentre ai lati i committenti, tra cui viene identificato Simone II Ventimiglia Moncada che, figlio di Giovanni II e marito di Maria Antonietta Ventimiglia a sua volta figlia di Guglielmo, Barone di Sperlinga e di Ciminna, divenne tra il 1550-51, strategoto di Messina.
Il polittico, che presenta motivi tipici della scuola di Antonello e ripresi nella decorazione a stucco, è attribuito alla sua bottega, quindi ai figli Vincenzo e Fazio, solo successivamente anche a Giacomo per i riferimenti stilistici, per il legame con la famiglia committente e la documentata attività a Gangi negli anni 1539-40. L’opera è caratterizzata da quel senso dell’horror vacui che contraddistingue la produzione derivata da quella scuola, come l’infittirsi dei motivi decorativi, quali le candelabbra intramezzati da mascheroni che ricoprono le paraste e l’architrave su cui si poggia la lunetta ed il motivo delle sfinge alate che sovrastano le conchiglie poste sulle teste dei due santi.
Statua in marmo di cm. 130 è collocata nella Chiesa di San Nicolo a Gangi, dapprima Madonna della Vittoria per la vittoria della flotta cristiana contro gli ottomani ottenuta per intercessione della vergine nella battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571. Per volere di papa Pio V nel 1572 venne istituita la festa per celebrare l’evento e ribattezzata dal suo successore Gregorio XIII in festa del rosario da cui prese anche il nome la Madonna.
La ricostruzione della storia della statua a Gangi e contraddistinta come stesso accede da documenti non del tutto probanti. Sulla base di alcuni documenti dell’Archivio Storico della Chiesa Madre di Gangi, la statua sarebbe pervenuta per il tramite della nobile famiglia Barone proveniente da Naro e posta nella chiesa di cui aveva assunto il patronato.
Un documento di recente ritrovamento pone degli interrogativi sul documento gangitano, anche per l’antagonismo tra la compagnia del Rosario della matrice e quella della chiesa della Catena, secondo la nuova testimonianza nel 1540 la statua di una madonna con il Bambino viene commissionata a Giacomo Gagini, terzogenito di Antonello, per la chiesa di Santa Maria di Gesù.
La probatorietà del nuovo documento viene confermata dalla conformità dei dati contenuti nella commissione e l’opera come l’altezza della statua fissata in sei palmi, che corrisponde perfettamente se viene considerato lo “scannello” di 30 cm. Mancante oppure la posizione del bambino sulle braccia della madre che è rivolto verso il popolo e con il mano il pomo.
Inoltre per analogia dell’impronta scultorea che essa possiede con le sculture della Vergine con il bambino della Cattedrale di Cefalù (1533) ed alla Madonna del santuario di Gibilmanna (1534).
Le tre statue pur ripetendo gli aulici modelli di Antonello Gagini non raggiungo la qualità plastica e formale dell’artista, per l’andamento disordinato del panneggio del manto, la libertà con cui si staglia il bambino nello spazio, in totale dipendenza dalla madre, i capelli raccolti dietro la nuca ed il piccolo frutto tenuto con due dita dal bambino, evidenziano la mano giovanile ed incerta del sedicenne Giacomo che operato la scultura della Madonna di Cefalù e la mano più sicura nella Vergine di Gibilmanna, che ha realizzato con la supervisione del padre.
Dopo la morte di Antonello (1536) Giacomo ed il fratellastro Antonino porterà a compimento le opere del padre acquistando il linguaggio scultoreo del padre ed evolvendo verso soluzioni “manieristiche” proprie di distribuzione delle pieghe secondo uno schema quasi geometrico.
Acquasantiera in marmo bianco è ubicata all’ingresso laterale della chiesa Madre, nella navata settentrionale. Il fonte circolare è caratterizzato sul margine esterno, in corrispondenza degli assi, quattro testine di putti dai lunghi capelli mentre nella parte convessa è decorata con scanalature “ad unghia” confluenti verso la colonna.
La colonna ha un andamento a candelabbra, motivo molto diffuso nell’arte rinascimentale e manierista, poggia su una base quadrangolare ed è decorata con foglie d’acanto e motivi vegetali. Appena sopra la parte mediana reca uno scudo ovale, che in araldica è utilizzato per le armi di donne religiose o sposate, con l’iscrizione MRDN.
L’acquasantiera, come il fonte battesimale presenti nella chiesa di San Nicolò, proviene dalla chiesa del monastero benedettino di Santa Maria di Gangivecchio e può ricondursi al XVI secolo.
Il rilievo, di piccole dimensioni, è posto sul lato destro dello spazio dedicato alla gradinata che conduce al presbiterio nella chiesa Madre ed è nota come la Madonna delle Grazie e risale al XVI secolo.
Rilievo di forma ovale è contenuto entro una cornice elaborata con elementi fitomorfi, di epoca posteriore forse coeva alla decorazione tardo barocca della chiesa, e raffigura la vergine avvolta da un ampio manto, su una tunica a pieghe, mentre tiene sul braccio sinistro il Bambino ed è circondata da una corona di cherubini alati, motivo ricorrente nelle opere gaginiane.
Il rilievo in marmo di San Sebastiano di cm. 60, la cui datazione sembra risalire alla prima metà del XVI secolo, è ubicato entro una nicchia alla sommità laterale del portale laterale della facciata della chiesa Madre a fianco del campanile, un tempo torre civica dei Ventimiglia. L’oratorio di San Sebastiano al quale il portale apparteneva, è stato demolito per fare posto alla navata settentrionale della nuova Matrice, consacrata nel 1740 a San Nicolò di Bari.
Il santo viene raffigurato seminudo, legato per le mani ad un albero e segnato dalle frecce dalle quali viene colpito, ed affiancato da due puttini che reggono uno scudo araldico a “testa di cavallo”.
Statua in marmo di cm. 150 viene proposto vestito da vescovo con piviale, stola e mitra, ma senza bastone pastorale, con il braccio destro nell’atto della benedizione, ma priva delle qualità plastiche rilevanti della bottega che si erano assuefatti e riproponevano stancamente gli stilemi degli ultimi epigoni della produzione gaginiana. L’elemento identificativo del personaggio raffigurato viene assicurato dal rilievo scolpito sulla faccia frontale del piedistallo “ scannello “.
Lo scultore sembra essersi ispirato all’immagine del santo scolpita a rilievo sulla cona marmorea, anch’essa di modesta qualità, della chiesa di San Cataldo di Enna datata 1562 e successivamente attribuita a Giandomenico Gagini.
Acquasantiera è ubicata all’ingresso della chiesa ed è composta da due parti non omogenee tra loro, il fonte in marmo bianco e la colonna in pietra. Il fonte presenta, in corrispondenza degli assi, quattro testine di putti intervallate da scanalature che si estendono a tutta la parte inferiore, reca inoltre uno scudo ovale, oggi abraso, che si presuppone contenesse le armi o il nome del committente.