Itinerario di Giuseppe Salerno, detto Lo Zoppo di Gangi:
Polizzi – Petralia Soprana – Geraci Siculo – Gangi
L’itinerario turistico religioso che si consiglia al pellegrino alla ricerca di un’interiorità religiosa e culturale ed alla scoperta delle opere di Giuseppe Salerno, detto Lo Zoppo di Gangi, individua un percorso definito lungo l’asse di percorrenza della Via Francigena per le Madonie, ma che può essere percorso anche per tappe distinte.
DESCRIZIONE DELL'ITINERARIO
Descrizione dell’itinerario per tappe…
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GIUSEPPE SALERNO, VITA E ARTE
Vita e Arte di Giuseppe Salerno, detto Lo Zoppo di Gangi
Giuseppe Salerno, figlio di Pietro, un benestante coltivatore ed allevatore, e di Barbara, nasce a Gangi intorno al 1573; la famiglia, che abita in una casa del quartiere San Paolo, conduce una vita non agiata ma neanche particolarmente modesta. La circostanza che vede, in questo periodo, il maestro ennese Pietro Bellio stabilirsi a Gangi nello stesso quartiere, proprio nei pressi dell’abitazione dei Salerno, è indicativa dell’alunnato di Giuseppe presso lo stesso Bellio, probabilmente insieme al conterraneo Gaspare Vazzano. Non è comunque escluso un successivo perfezionamento di Giuseppe a Palermo, presso la bottega dell’Alvino o, forse, anche presso il suo compaesano Gaspare, più anziano di una diecina d’anni e già pittore affermato: è probabile dunque che possa essere proprio il giovane Salerno l’apprendista che, nel 1591, lavora insieme a Gaspare Vazzano nel palazzo Pretorio di Palermo.
Malgrado però un suo impegno, già come pittore autonomo, presso il convento dell’Annunziata di Trapani nel 1597, circostanza che fa pensare ad un effettivo contatto con il Sozzo e con il Vazzano, Giuseppe Salerno sembra preferire una sistemazione nel paese natio; qui infatti, nel settembre del 1598, sposa Vincenza de Urso, originaria della vicina cittadina di Nicosia, che gli darà sette figli (Antonino, Silvestro, Girolamo, Egidio, Cataldo, Nicola ed Eugenia). E qui, nel quartiere di San Paolo, impianta la propria bottega.
Del 1600 è una delle prime sue opere documentate, la perduta Natività per la chiesa della Catena di Gangi; e l’anno successivo, sempre a Gangi, si impegna per l’esecuzione di una Madonna dell’Itria, anch’essa perduta. Nello stesso anno 1601 il Salerno figura nella qualità di procuratore della chiesa di S. Cataldo, circostanza che lo pone in vista nell’ambito del proprio paese.
Sarà però l’anno successivo, il 1602, a sancire l’affermazione artistica del Salerno e, nello stesso tempo, la nascita della questione sullo Zoppo di Gangi; accanto a questo pseudonimo infatti, per la prima ed unica volta, maestro Giuseppe pone il proprio nome, firmando il Trionfo della Fede di Enna: UT DICITUR IL ZOPPO DI GANGE. Quest’opera, che è la più antica fra quelle firmate dall’artista, potrebbe costituire il trait d’union della possibile presenza del Salerno presso il già affermato conterraneo Vazzano, in una sorta di marchio di bottega prima della completa autonomia del giovane Giuseppe.
Già affermato maestro nei primi anni del 1600, Giuseppe Salerno ha impiantato la propria bottega nella nativa Gangi ed esercita la propria arte soprattutto nell’ambito delle Madonie. Documentato a Gangi nel 1603, dove è testimone in un atto di vendita, è a partire dal 1606 che maestro Giuseppe si troverà particolarmente impegnato nella produzione di pale d’altare per i vicini centri madoniti; in quell’anno infatti firmerà il Martirio di Santo Stefano ed il San Pancrazio a Polizzi e ancora la Santa Caterina d’Alessandria a Petralia Soprana.
A Gangi il Salerno amplia la propria bottega acquistando, nel 1612, una casetta vicino alla propria abitazione; qui, con la famiglia che nel frattempo si accresce con i primi tre figli, conduce una vita benestante. E’ del 1609 una perduta tela della Purificazione della Vergine nella quale il committente, il facoltoso concittadino Giuseppe di Marco, vuole essere raffigurato insieme alla moglie; ma nello stesso anno data il Santo Stefano protomartire di Geraci Siculo e, nel 1611, firma il San Benedetto in trono per la chiesa della Badia Vecchia di Polizzi.
Giuseppe Salerno ha oramai acquistato una notevole fama che, negli anni a seguire, lo porterà ad assumere svariati incarichi, soprattutto nei vicini paesi; la sua famiglia vive agiatamente nella casa del quartiere San Paolo mentre il fratello Vincenzo abita nel vicino quartiere della Porta di Conte. Negli ultimi giorni del 1612 l’anziano padre, il massaro Pietro, detta il suo testamento.
In questo secondo decennio del Seicento (1612-1623 ) la bottega gangitana di Giuseppe Salerno è particolarmente operosa; le commissioni provengono specialmente dalle vicine Petralie e dai paesi madoniti, ma anche dalle chiese della sua Gangi.
Del 1613 è una perduta Immacolata Concezione e Santi commissionata al Salerno da dotti committenti di San Mauro Castelverde, mentre dell’anno seguente è una pittura per l’altare maggiore della chiesa di San Giacomo a Collesano. Nel 1616 è ancora a Polizzi dove esegue la Natività con il trionfo dell’Eucarestia e l’anno seguente firma e data il Trionfo dell’Eucarestia con i Santi Caterina da Siena e Pietro Martire per la chiesa madre di Petralia Sottana. Qui per i Padri Riformati aveva eseguito, poco tempo prima, il Transito della Vergine, oggi al Municipio di quella cittadina, affrontando temi di particolare complessità teologica (come appunto quello dell’Eucarestia e della Vergine) con grande sapienza artistica.
Nel 1618 il Salerno è impegnato sia nella sua Gangi, dove esegue per la chiesa di San Cataldo della quale fu procuratore, il Miracolo dei Diecimila Martiri, sia ancora sulle Madonie dove, a Petralia Soprana, gli viene commissionato la splendida tela di modeste dimensioni raffigurante la cosiddetta Madonna del gatto. Nel 1620 l’artista ritorna ancora a Collesano per affrescare la cappella del Sacramento della chiesa madre, la stessa in cui, quattro anni dopo, il suo conterraneo Gaspare Vazzano, l’altro Zoppo di Gangi, eseguirà la sua ultima opera. Ma nello stesso anno Giuseppe Salerno, infaticabile, gira ancora per i paesi delle Madonie: a Polizzi firma e data il Patrocinio di San Gandolfo, fra le opere più belle dell’artista, ed esegue il Ritorno dall’Egitto, mentre ad Isnello data l’Adorazione dei pastori per la chiesa dell’Annunziata.
Questo periodo di attività del Salerno, che denota la piena maturità dell’artista sempre alla ricerca di un giusto equilibrio fra la trasmissione del messaggio devozionale e la sua traduzione in un corretto linguaggio figurativo, sembra coincidere con una serena vita privata che lo vede, cinquantenne, padre di sei figli e con una posizione sociale ben consolidata.
Il periodo 1624-1633 vede gli ultimi lavori del “soldato di piedi”, infatti è del 1629 il suo massimo capolavoro, impegnativo anche per le inusuali dimensioni della tela: il Giudizio Universale commissionato dal parroco della chiesa madre di Gangi. La complessità del tema tratto e la particolare composizione data dall’artista fanno di quest’opera uno dei maggiori capolavori dell’arte pittorica del primo Seicento e, certamente, l’opera più complessa del Salerno. Nello stesso anno, a Petralia Sottana, maestro Giuseppe firma e data le Cinque piaghe di Cristo per la chiesa madre di quella cittadina.
Oramai invecchiato, il maestro gangitano esegue, nel 1630, l’ultima sua opera nota, la Madonna delle Grazie nella chiesa madre di Enna.
Pochi anni dopo, nel 1633, anche questo gigante della pittura siciliana lascia il mondo lasciando numerosi esempi del suo estro artistico; seppellito nella stessa chiesa del Carmine dove, qualche tempo prima, aveva trovato riposo il suo primo maestro, Pietro Bellio, i suoi resti sarebbero stati trasferiti successivamente nella chiesa della Catena nella quale, sembra, il Salerno aveva lasciato la propria impronta.
LE PRINCIPALI OPERE DI GIUSEPPE SALERNO
Olio su tela cm. 290 x 200
Iscrizioni: JOSEPH SALERNO DI GANGI P. 1606
Provenienza: Oratorio Santo Stefano al Garraffo; Chiesa di San Giovanni Battista; Chiesa di Santa Maria di Gesù Lo Piano
Quest’opera, nella sua evidente monumentalità dell’impianto compositivo, presenta un linguaggio ad alto contenuto religioso facilmente comprensibile soprattutto da parte di un pubblico poco colto; per questa ragione essa ben si inserisce negli intenti della Controriforma che tendevano a divulgare, attraverso l’arte figurativa, gli ideali di rinnovamento spirituale scaturiti a seguito del Concilio tridentino e propagandati successivamente dal clero e dagli Ordini religiosi.
Il dipinto, pervaso da una oscurità squarciata, in alto, solamente dalla luce divina all’interno della quale appare la Trinità, raffigura il momento del martirio di Santo Stefano, uno dei sette diaconi ordinati dagli Apostoli perseguitato e condannato dai giudei; il primo martire cristiano è infatti rappresentato nell’atto della sua lapidazione sotto le mura di Gerusalemme che, sullo sfondo, appaiono in tutta la loro monumentalità. Il Santo, genuflesso e con lo sguardo rivolto in alto, è attorniato da quattro carnefici mentre, sullo sfondo, altre persone assistono attonite alla scena.
In alto, sotto lo squarcio del cielo, due piccoli angeli reggono la corona e la palma del martirio mentre nella parte bassa del dipinto sono raffigurate cinque storiette con altrettanti miracoli compiuti dal Santo protomartire. Particolare attenzione è posta dall’artista al paramento indossato da Santo Stefano, finemente trattato con guarnizioni d’oro sulla stoffa di colore rosso ed alla composizione paesaggistica trattata come se fosse surreale e quasi astratta dal contesto della scena.
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Olio su tela cm. 290 x 200
Iscrizioni: al centro sotto la mitra: (P)ANCR…; in basso a destra: G.D. (E)LEMO(SINIS) … SA(LERNUS) GANGI(ENSIS) …1606
Provenienza: ubicazione originaria
Commissionata dalla Compagnia di San Pancrazio (vescovo di Taormina vissuto nel primo secolo d. C.), pur presentando uno schema iconografico semplice e comprensibile, com’era stato precipuamente indicato dai dettami della Contoriforma, l’opera presenta invece una complessa impostazione teologica connessa al culto delle Anime del Purgatorio a cui la predetta Compagnia faceva espresso riferimento.
La scena del dipinto, che si presenta ripartito in tre moduli, è dominata interamente dal “Trono di Grazia”, ossia dalla cosiddetta “Trinità Verticale” rappresentata dal Padre che porge il corpo del Figlio morto, come segno della Redenzione; su di essi sta la colomba, simbolo dello Spirito Santo in una aureola sfolgorante di luce irradiata dall’alto.
Sui due lati una folla di angeli oranti reca gli strumenti del martirio ed i simboli della Passione del Cristo mentre un altro angelo, al centro della tela, trae seco le anime purganti.
Il modulo centrale vede invece la presenza della Vergine Addolorata, di raffinata fattura, e poco più sotto, situato in maniera tale da rispettare una rigorosa disposizione gerarchica delle figure, il vescovo San Pancrazio; sia la Vergine che il Santo, intercedendo presso la Trinità in segno di perfetta mediazione fra Dio e gli uomini, supplicano l’intercessione per le anime purganti che, ai loro piedi, invocano il perdono.
Nella parte inferiore della tela è infatti rappresentata l’umanità peccatrice che cerca il riscatto, attraverso la mediazione di Maria e del Santo vescovo, presso il Trono dell’Eterno. Qui, in una dimensione ultraterrena che accomuna ogni uomo, si vedono rappresentati insieme papi, vescovi, regnanti e gente comune, quasi a voler sottolineare come tutta l’umanità, indistintamente, sia soggetta al supremo giudizio di Dio.
Di particolare interesse, oltre alla particolare simbologia trinitaria, è la figura della Vergine, avvolta in un manto nero, il cui viso appare di una soavità particolare; grande cura è data dall’artista anche al vescovo Pancrazio che, genuflesso sulla destra, bacia le ferite dei piedi del Cristo.
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Olio su tela cm. 300 x 200
Iscrizioni: in basso a destra: QUESTO L’HA FACTO FARI IL S. BLASI RAMPULLA ET LA SIG. LUCRETIA SUA MOGLIE P. SUA DEVOTIONI ALI 1606
Provenienza: Chiesa di Santa Maria delle Grazie (Badia Nuova)
La commissione dell’opera da parte del nobile Biagio Rampulla, il cui stemma gentilizio appare ai piedi di un pregevole cesto i fiori ai piedi della tela, e l’ambito religioso nel quale l’artista gangitano si muoveva e che faceva capo agli Ordini monastici dei Benedettini, dei Domenicani e dei Cappuccini, rivela indubbiamente come Giuseppe Salerno, in tutta la sua attività artistica, fosse diventato il pittore preferito da tali committenti, soprattutto in ambito madonita.
Il dipinto riprende lo schema iconografico della Madonna del Rosario, cara all’Ordine domenicano, il cui culto venne rafforzato dopo la battaglia di Lepanto del 1571, quando i Turchi, grazie all’intercessione della Madonna invocata appunto con il rosario, vennero definitivamente sconfitti; da allora, soprattutto presso i domenicani, vennero fondate numerose le Compagnie del Rosario.
L’impostazione della tela è quella canonica della Controriforma: in alto la Madonna, assisa su un trono di nubi attorno al quale girano uno stormo di angeli, regge in braccio il Bambino nell’atto di consegnare il Rosario a San Domenico; accanto a quest’ultimo, nella parte inferiore del dipinto, stanno i Santi Brandano vescovo, abate irlandese del VI secolo insolitamente rappresentato in questo tipo di iconografia, e dall’altro lato Caterina da Siena e Agnese.
La scena è incorniciata da una struttura architettonica a mo’ di portale dove in quindici riquadri, con rilevante preziosismo, sono rappresentati i misteri del Rosario; sul plinto di sinistra, entro una nicchia, è raffigurata Santa Caterina d’Alessandria la cui posa ricorda il dipinto della stessa Santa Caterina a Petralia Soprana, mentre su quello di destra è Sant’Agnese.
Il dipinto denota un momento particolarmente felice per il Salerno, soprattutto per la raffinata esecuzione, oltre che per gli effetti cromatici utilizzati; particolarmente aggraziati sono i volti dei Santi e soprattutto della Vergine e del Bambino e di grande effetto miniaturistico appaiono le quindici storiette con i misteri del Rosario.
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Olio su tela cm. 250 x 180
Iscrizioni: in basso a sinistra: FIERI FECIT R.S.D. ANTONIA FINAMORE ABBADESSA HUIUS MONASTERII; in basso a destra: ANNO DOMINI 1611; in basso a destra in angolo: IOSEPH SALERNO
Provenienza: ubicazione originaria
L’opera venne commissionata all’artista gangitano da Antonia Finamore, badessa del monastero benedettino di Santa Margherita a Polizzi Generosa; lo stemma gentilizio del casato venne infatti apposto, oltre all’iscrizione, proprio nel primo gradino della predella.
Il dipinto raffigura San Benedetto da Norcia, fondatore dell’Ordine dei Benedettini, assiso su una cattedra con i braccioli artisticamente intagliati ed avvolto da un ampio piviale appuntato sul petto con un fermaglio; quattro angeli gli pongono la mitra sul capo mentre il Santo, in una posa severa e monumentale, regge con la mano sinistra il bastone pastorale ed il libro della sua Regola e con la mano destra benedice i due Santi in piedi ai suoi fianchi.
Sulla destra di San Benedetto è infatti San Mauro mentre sulla sinistra è San Placido; ambedue figli di nobili famiglie, i due abbracciarono la Regola benedettina e vennero mandati rispettivamente in Francia ed a Messina a fondare nuovi monasteri. Ambedue i Santi sono raffigurati con la mitra, il pastorale ed un libro, simbolo della Regola.
In basso alla tela, nel primo dei quattro gradini che compongono la predella, alternati a cartigli con iscrizioni, sono tre storiette con la vita di San Benedetto, oggi purtroppo non più leggibili nella loro totalità.
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Olio su tela cm. 350 x 250
Iscrizioni:
Provenienza: Chiesa di San Giuseppe
Commissionato dai rettori della Confraternita del SS. Sacramento, su disposizione del barone di Xireni, Giuseppe Caruso, il dipinto venne consegnato dal Salerno nel luglio del 1671 e venne collocato nella chiesa di San Giuseppe, dove aveva sede la Compagnia.
Così come espressamente richiesto nel contratto, il dipinto doveva svilupparsi su tre registri sovrapposto contenenti altrettanti soggetti.
Nella parte bassa la tela presenta la Natività con l’adorazione dei pastori; accanto al gruppo centrale della Madonna e di San Giuseppe con il Bambino stanno i due gruppi dei pastori e dello zampognaro in una atmosfera che denuncia una particolare ricerca cromatica. Un piccolo scorcio di paesaggio sulla destra si apre ad un bagliore di luce che sembra voler illuminare la scena.
Nella parte centrale del dipinto è invece il trionfo dell’Eucarestia, immersa in una aureola sfolgorante di luce tra due folte schiere di angeli adoranti. L’Eucarestia è posta in un artistico ostensorio sorretto da un gruppo di piccoli angioletti mentre in basso un altro gruppo di angeli reca un cartiglio relativo alla nascita di Gesù. Tutto il registro centrale rimanda al Trionfo dell’Eucarestia con i Santi Caterina da Siena e Pietro Martire di Petralia Sottana firmata e datata nello stesso anno dal Salerno.
In alto sta la colomba simbolo dello Spirito Santo e l’Eterno benedicente che, tra schiere di angeli musicanti, cinge il globo terrestre con il braccio sinistro.
Di notevole interesse è il particolare e ricercato effetto cromatico dato dall’artista alla parte centrale e superiore del dipinto.
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Olio su tela cm. 122 x 97
Iscrizioni: in basso a sinistra: 1625
Provenienza: sacrestia chiesa di santa Maria delle Grazie o Badia Nuova
Di pregevole fattura e dotata di una notevole carica espressiva, quest’opera rappresenta ancora una volta la profonda riflessione artistica e spirituale del Salerno, grande interprete delle spinte devozionali e religiose post conciliari.
La scena si svolge in un sobrio ambiente domestico all’interno del quale la Vergine Maria e San Giuseppe assistono pensierosi ai giochi di Gesù Bambino che, ai loro piedi, s’intrattiene con il piccolo San Giovanni; ed è proprio quest’ultimo particolare a rendere così forte e carica di significati quest’opera. Il Bambino Gesù è infatti intento a giocare con quelli che saranno gli strumenti della sua Passione, la croce, la scala, la lancia tutte poggiate a terra, e poi le corde ed i chiodi ancora riposti dentro la cesta; ed infine la corona di spine che, con fare quasi ingenuo, il Bambino pone sul proprio capo. San Giovanni, in ginocchio, reca in braccio un agnello e la banderuola con la scritta ECCE AGNUS DEI.
Nella stanza, Maria appare alle prese con il tombolo mentre sembra richiamare l’attenzione del suo Santo sposo che, seduto su di una panca, ha riposto gli attrezzi di lavoro. Due angeli assistono in basso alla scena mentre altri due sorreggono un ampio tendaggio che sovrasta sull’ambiente; sul davanzale della finestra ancora due angeli suonano il liuto e l’arpa.
Di particolare suggestione è il taglio della luce che, in un marcato gioco di luci ed ombre, rende l’atmosfera quasi incantata.
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Olio su tela cm. 300 x 220
Iscrizioni: in basso al centro: IOSEPH SALERNO P. 1620; a sinistra: S. GANDOLFUS; a destra: HUMANITAS
Provenienza: ubicazione originaria
Il dipinto raffigurante il Patrocinio di San Gandolfo è senza dubbio una delle migliori opere di Giuseppe Salerno eseguita quando l’artista, cinquantenne, era all’apice della sua attività. L’opera costituisce anche uno degli esempi più emblematici ed evidenti dell’influenza della cultura francescana nella produzione artistica del pittore gangitano.
L’opera, ripartita nei consueti due registri superiore ed inferiore, richiama in maniera evidente i dettami e lo spirito della Controriforma, soprattutto nel tema dell’intercessione orante raffigurata qui in particolar modo dalla Vergine in ginocchio davanti la Trinità e dalle figure del Santo e dell’Angelo custode.
Il dipinto raffigura sulla sinistra San Gandolfo di Binasco, appartenente all’Ordine dei Minori Francescani, mentre intercede presso la Trinità e, dal lato opposto, un magnifico Angelo custode avvolto in preziosissime vesti mentre addita la Trinità al nobile genuflesso, nella cui figura suole vedersi il committente o il patrocinatore dell’opera.
Le due figure si stagliano contro un profondo scorcio di paesaggio madonita, rischiarato da un tenue bagliore in lontananza; in primo piano risalta nitida un’interessante raffigurazione della città di Polizzi, con le sue porte, le mura e, poco discosto dall’abitato, il convento dei Francescani.
Nel registro superiore, in una aureola di luce ed attorniata da angeli musicanti, sta la SS. Trinità assisa su un trono di nubi; la Vergine Maria da un lato intercede mentre San Giuseppe, dall’altro lato, è in atteggiamento di adorazione.
Di estrema e raffinata eleganza è senza dubbio l’Angelo custode, maestosa ed affascinante figura trattata con un pregevole fare artistico che mostra, del Salerno, la raggiunta maturità e l’equilibrio della forma.
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Olio su tela cm. 195 x 133
Iscrizioni: sul plinto a sinistra: (…)PPI SALERN DI GANGI (…) ME F.; sul plinto a destra: AUCTOR IST9 FUIT DON9IONE (…) SANDOVAL PET(…) INFERIORIS PRET(…) NON NULLOPx E(…) DEVOTOPx ELEMO(…) A. D. 16(…); al centro: DU CAEL INT(U)ITUR MEDIO CATHARINA ROT(…)U UIS SUPERU(…) SUM(…) MUCRONE R(…)AS
Provenienza: sconosciuta
Come appare nell’iscrizione posta sul plinto destro, benché incompleta a causa del fatto che la tela venne rifilata forse per adattarla ad una cornice, l’opera venne commissionata dal sacerdote Giovanni Sandoval di Petralia Soprana nel primo decennio del Seicento; la data, incompleta, segnata sul plinto potrebbe essere quella del 1606, assumendola come datazione dell’opera sulla base del raffronto stilistico con la Santa Caterina rappresentata nel plinto sinistro del portale della Madonna del Rosario e Santi di Polizzi Generosa, eseguita proprio in quell’anno.
Il dipinto propone l’iconografia tradizionale forse tratta dall’autore dalla Santa Caterina d’Alessandria che Giuseppe Alvino dipinse nel 1596 a Collesano, modello iconografico suggerito probabilmente dallo stesso committente. La Santa è infatti rappresentata a figura intera, racchiusa dentro un portale dipinto, mentre trafigge con la spada il tiranno Massenzio riverso ai suoi piedi; nella mano sinistra tiene un libro aperto e la palma del martirio mentre e terra si scorge parte della ruota con la quale Caterina venne torturata. Un angelo, in alto, le poggia sul capo una corona simbolo della sua regalità.
Sullo sfondo si scorge un paesaggio montuoso illuminato da una tenue luce nel quale il Salerno, nei due borghi dipinti, ha voluto forse raffigurare le due Petralie.
Ai lati sono riprodotti gli stipiti di un portale contenente otto formelle in cui sono rappresentate altrettanto storiette con episodi della leggendaria vita della Santa. L’accorgimento del portale dipinto, elemento architettonico che fa da cornice alla scena, è utilizzato dal Salerno in varie opere come la stessa Madonna del Rosario e Santi citata, la Visione di Santo Stefano di Geraci Siculo o il Sant’Onofrio di Petralia Sottana.
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Olio su tela cm. 122 x 97
Iscrizioni: di lato a destra, sul bordo della panca: SALERNO P. 1618
Provenienza: sconosciuta
Di piccolo formato e particolarmente aggraziato, il dipinto appare come una copia fedele della Madonna del gatto eseguita da Federico Barocci intorno al 1575, probabilmente tratta da una incisione, di due anni più tarda, di Cornelis Cort; del resto sono note, nella produzione artistica del Salerno, le derivazioni dalle opere del Barocci, e non solo.
La grazia dei volti e la naturalezza dei gesti, la raffinata ricerca dei colori, delle luci e delle ombre, in un inconsueto tema domestico, fanno di quest’opera una delle più belle eseguite dall’artista gangitano nel corso della sua lunga attività.
La scena, tratta pedissequamente dal dipinto del Barocci, raffigura la Vergine seduta mentre allatta il Bambino a cui addita un gatto, raffigurato di spalle sulla destra, in attesa di lanciarsi contro un uccellino tenuto in mano da San Giovannino; quest’ultimo, con fare affettuoso e familiare, si appoggia alla Madonna mentre dietro, sostenendosi ad uno sgabello, San Giuseppe si fa avanti per assistere alla scena. Sul fondo una finestra dotata di sedile illumina l’ambiente domestico.
Sulla sinistra, in primo piano, una cesta di vimini finemente dipinta contiene gli attrezzi per cucire che Maria sembra aver messo da parte.
Gradevole e molto raffinato, benché costituisca la copia dell’opera di un altro artista, il dipinto rivela la grande versatilità del Salerno nella elaborazione di un tema a lui inconsueto, quello di un interno domestico, trattato con grande attenzione nei particolari e, soprattutto, nell’effetto cromatico.
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Olio su tela cm. 310 x 255
Iscrizioni: in basso a sinistra: I. … G. P. 1620; in basso a destra: RELATIO POVERI …
Provenienza: Chiesa della Madonna della Porta alla Guardiola
Del tutto inedito, questo dipinto del Salerno è stato rivalutato e magistralmente interpretato in seguito alla mostra Vulgo dicto lu Zoppo di Gangi svoltasi nel 1997. Il tema iconografico, erroneamente inteso come la fuga in Egitto della Sacra Famiglia a seguito della strage di Erode, raffigura il ritorno di Giuseppe, Maria e di Gesù, oramai adolescente, verso la patria lasciata qualche anno prima; l’iscrizione EGITTUM sulla porta della città posta sulla sinistra e la scena del sogno di Giuseppe con l’angelo che gli indica di fare ritorno, anch’essa dipinta a sinistra, oltre all’età adolescente di Gesù, sono elementi che confermano come in effetti si tratti del ritorno verso la terra di Palestina.
La scena è dominata dalla città turrita posta in alto a sinistra e da un profondo paesaggio collinare nel quale spicca in lontananza una città tra i chiarori cangianti di un tramonto. Precede il corteo della Sacra Famiglia un elegante angelo che sembra indicare la strada a Maria; essa, sorreggendo il mantello, conduce per mano il piccolo Gesù. A poca distanza Giuseppe volge lo sguardo verso la città che lascia, tirando l’asino carico dei suoi strumenti di lavoro.
Uno stuolo di piccoli angeli festosi assiste alla scena svolazzando sul piccolo corteo, mentre a terra un cagnolino osserva interessato la scena.
La sigla in basso a sinistra, in parte lacunosa, viene sciolta in Ioseph (Salernus) Gangiensis Pingebat 1620.
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Olio su tela cm. 203 x 153
Iscrizioni: in basso a destra: IOSEPPI SALERNO INVE.; in basso a sinistra: HOC OPUS FIERI FECIT PETRUS DE GANGI NICOLAUS A. D. 1607; al centro: AVE MARIA GRATIA PLENA DOMIN. TECUM TUA GRATIA SIT MECUM BENEDICTA TU IN MULIERIBUS ET BENEDICTA SIT S. ANNA MATER TUA EX QUA SINE MACULA ET PECCATO PROCESSISTI VIRGO MARIA ET TE AUTEM NATUS EST IESUS CHRISTUS FILIUS DEI VIVI AMEN
Provenienza: ubicazione originaria
Anche quest’opera, come quelle dello stesso periodo, si colloca in un momento della vita dell’artista gangitano in cui la fama e la popolarità cominciavano a diffondersi in maniera più ampia nell’area madonita; a seguito della morte dell’Alvino, nel 1611, Giuseppe Salerno rimaneva dunque uno dei pochi artisti operanti nell’entroterra siciliano.
Il dipinto in questione raffigura, in una atmosfera familiare, la Sacra Famiglia in compagnia dei genitori della Vergine, Anna e Gioacchino. Maria con in braccio il Bambino ed Anna sono raffigurate entrambe sedute su una pedana e rappresentano il fulcro di tutta la scena; ai due lati, in piedi ed ognuno accanto alla propria sposa, stanno San Giuseppe e San Gioacchino.
Ai piedi della pedana due piccoli angeli reggono una lapide sulla quale è iscritta una preghiera mentre altri due angioletti in alto reggono i lembi di un ampio tendaggio che chiude superiormente la scena.
In alcune espressioni dei personaggi sembrano riecheggiare i modelli di alcuni artisti siciliani del periodo, dall’Alvino al Pulzone, dal Barocci al Catalano al Paladini che costituirono i sicuri riferimenti per la formazione artistica del pittore gangitano.
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Olio su tela cm. 250 x 180
Iscrizioni: in basso: (IOSE)PPI SALERNO DI GANGI
Provenienza: Chiesa dei Padri Riformati
Commissionato dai Osservanti che abitavano il convento di Santa Maria degli Angeli poi passato ai Padri Riformati, il dipinto, firmato dall’autore, venne impostato dal Salerno secondo uno schema iconografico desunto direttamente dagli Atti degli Apostoli e riguardante la morte e l’assunzione della Vergine. L’impostazione, con la Madonna distesa sul letto ed attorniata dagli Apostoli, sottolinea il ruolo assunto da Maria come Madre della Chiesa e quello di mediatori ed eredi del Messaggio Evangelico rivestito dai Dodici.
La scena si svolge infatti in un interno con la Vergine oramai trapassata e già assunta in cielo, benché le sue spoglie siano ancora sulla terra, e posta al cospetto della Trinità che dall’alto appare in uno squarcio di nubi, in mezzo ad angeli festanti. I dodici Apostoli, che assistono rattristati alla scena, si raccolgono attorno alla Madre di Dio mentre ai piedi del letto un giudeo mostra le mani guarite, secondo quanto viene riferito dai Vangeli apocrifi.
Sulla destra, in alto, una finestra si apre su di un paesaggio surreale nel quale è la figura di San Tommaso che apprende da un angelo l’avvenuta assunzione di Maria.
Di particolare effetto è il lenzuolo del letto, sottolineato da un fine merletto che ne impreziosisce l’aspetto.
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Olio su tela cm. 231 x 155
Iscrizioni: didascalie alle storiette non leggibili
Provenienza: Chiesa di San Pietro Apostolo
Il dipinto raffigura Sant’Onofrio quasi ignudo, coperto solamente da un perizoma di foglie, in un’assorta invocazione al cielo mentre tra le mani tiene un rosario. L’aspetto del Santo è quello dell’iconografia tradizionale che vede l’anacoreta in età avanzata e deperito a causa della vita eremitica condotta.
Quest’opera, datata al secondo decennio del Seicento, appare molto vicina ad altre opere certe del Salerno, soprattutto per l’impianto compositivo che vede Sant’Onofrio raffigurato all’interno di un portale arcuato i cui stipiti contengono le storiette con episodi della vita del Santo che vanno dalla nascita presso una nobile famiglia alla sua morte.
Di estremo interesse sono i due piccoli angeli che, sui due stipiti del portale, reggono la corona ed il bastone, attributi del Santo; anche questi due elementi, che rimandano al dipinto della Visione di Santo Stefano di Geraci Siculo eseguito dal Salerno nel 1609, permettono di ricondurre alla mano dell’artista gangitano l’opera in questione.
Gradevole è il paesaggio tenuamente illuminato che si scorge sulla destra, evidente richiamo alla vita eremitica di Onofrio.
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Olio su tela cm. 287 x 190
Iscrizioni: al centro: HOC OPUS FIERI FECIT D. ANTONINUS DE MIRANTE PRO DEVOTIONE SUA ET JOSEPH SALERNO GANGIENSIS PINGEBAT DIE 20 NOVEMBRIS PRIMAE INDICTIONIS 1617
Provenienza: Oratorio del SS. Sacramento
Eseguita per l’Oratorio del SS. Sacramento, la tela sembra avere un chiaro riferimento al dipinto della Natività con il trionfo dell’Eucarestia che il Salerno eseguì per l’omonima confraternita di Polizzi Generosa appena tre mesi prima; l’unica differenza fra il nostro dipinto e la parte superiore della tela eseguita a Polizzi è nell’ostensorio del tipo a tempietto e stile tardo gotico anziché a raggiera.
Il dipinto è diviso in due registri; in quello inferiore stanno in adorazione i Santi domenicani Caterina da Siena, a sinistra, e Pietro Martire, a destra, quest’ultimo raffigurato con due coltelli conficcati nel cuore e sul capo, strumenti del suo martirio. Alle loro spalle, in due piccoli riquadri, sono raffigurati scene della vita dei due Santi.
Nel registro superiore è il Trionfo dell’Eucarestia, con un gruppetto di piccoli angeli che, al centro, sorregge l’artistico ostensorio fra due schiere di cherubini oranti. Sopra tutto aleggia la colomba dello Spirito Santo in una aureola di luce sfolgorante.
In basso alla tela, separate da un cartiglio centrale dov’è riportato il nome del committente e quello del pittore unitamente alla data di esecuzione, stanno quattro storiette con altrettante scene della vita dei due Santi.
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Olio su tela cm. 265 x 200
Iscrizioni: in basso a sinistra: HOC OPUS … ALTARE & C SEPULTURA DEVOTIONE SUA ME FECIT ANTONIUS CIRAMIUS SUO PROPRIO ERE DIE 12 MENSIS APRILIS 7 IND.IS ANNO 1624; firmato sulla pietra in basso a sinistra: JOSEPH SALERNUS GANGENSIS P; in basso a destra: FACTUM FUIT TEMPORE GUARDIANATUS FRATRIS BONAVENTURA DE MARNO
Provenienza: ubicazione originaria
L’opera si inserisce pienamente in quel filone della pittura riformata che a cavallo fra Cinquecento e Seicento fece parte del processo di rinnovamento spirituale scaturito nell’ambito post conciliare; il tema iconografico della stigmatizzazione fu uno degli argomenti trattati con particolare attenzione dall’Ordine Francescano soprattutto nell’associazione di San Francesco al Cristo crocefisso.
Il dipinto rappresenta una scena molto suggestiva nella quale Francesco, genuflesso e con le braccia aperte, ha già ricevuto le stigmate dal Cristo che appare in alto a sinistra in un radioso squarcio del cielo. Accanto al Santo, ma un poco più arretrato, frate Leone volge lo sguardo verso la luce divina coprendosi gli occhi con la mano.
Tutta la scena è immersa in un paesaggio naturale, con rocce ed alberi, dove in lontananza si scorge il convento; brevi bagliori illuminano il cielo cupo.
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Olio su tela cm. 240 x 185
Iscrizioni: in basso a sinistra: OH OPUS FIERI FECIT PHILIPPUS MUNGIBOI SUA DEVOTIONE SUOQUE SUMPTU NUNC RENOVATUM DELEMOSINA DIVOTORUM 1629; in basso a destra: SALERNUS PINXIT 1629
Provenienza: ubicazione originaria
Erroneamente indicata come Cristo al sepolcro, quest’opera lega la sua iconografia al culto delle Cinque Piaghe del Signore diffuso in piena epoca della Controriforma; anche qui, peraltro, l’elemento devozionale ed il supporto dell’elemosina consentono al clero di attuare quelle ideologie scaturite dai lavori conciliari in una nuova ripresa della religiosità e della spiritualità cattolica.
Il dipinto, mutuato probabilmente da incisioni che in quel periodo circolavano in maniera non insolita, raffigura il Cristo morto sorretto dagli angeli sul bordo del sarcofago marmoreo, mentre altri due angeli ai suoi piedi recano il cesto con gli strumenti della crocefissione.
Sullo sfondo le tre Marie appaiono in uno scorcio paesaggistico mentre un banco di roccia chiude la composizione sulla destra.
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Olio su tela cm. 290 x 196
Iscrizioni:
Provenienza: Chiesa dei Santi Marco e Biagio
Sembra che il dipinto fosse firmato GIUSEPPE SALERNUS GANGIENSIS FECIT, ma un taglio della tela dovuto all’inserimento del quadro entro una nuova cornice d’altare ne ridusse, seppur minimamente, le dimensioni facendo scomparire la firma dell’artista.
Anche quest’opera si colloca all’interno di quel filone della pittura devozionale derivata dall’azione controriformista del Concilio di Trento, benché sembra appartenere alla produzione tarda del pittore gangitano. La semplicità della composizione è stata accostata alla versione iconografica severa introdotta da Scipione Pulzone in Sicilia, anche se non passano inosservati riferimenti al maestro del Salerno, Giuseppe Alvino.
L’opera presenta la solita partizione in due registri, quello inferiore dove è rappresentata l’intercessione dei Santi e quello superiore dove viene raffigurato l’evento soprannaturale, secondo i canoni controriformisti. In primo piano si stagliano, imponenti, le figure dei due Santi il cui sguardo è rivolto verso l’osservatore: Marco Evangelista con il Vangelo ed una penna in mano e Biagio vescovo con piviale, mitra e pastorale; alle loro spalle un tavolo dove sono poggiati dei libri mentre al di sotto è accovacciato un leone, chiaro attributo del Santo Evangelista.
Nella parte superiore della tela la Madonna con il Bambino in braccio è attorniata da una schiera di angeli musicanti, mentre due angeli le reggono una corona sul capo. Ai lati del dipinto due colonne inquadrano la scena all’interno di un ambiente.
Anche in quest’opera il Salerno pone l’attenzione alla dovizia di particolari, nei gioielli del piviale, nel mantello damascato e nel bastone pastorale del Santo vescovo.
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Olio su tela cm. 217 x 146
Iscrizioni: sul gradino superiore a sinistra: S. MAURUS ABBAS; sul gradino inferiore a sinistra: HOC OPUS MAG.R PETRUS MANCUSUS SUIS ET ALIENIS ELEMOSINIS FIERI FECIT
Provenienza: Chiesa di San Pietro Apostolo
La datazione del dipinto sembra poter essere ricondotta intorno alla fine del secondo decennio del Seicento, quando un maestro Pietro Mancuso, probabilmente lo stesso committente dell’opera, figura attivo falegname nella Petralia Sottana del tempo.
L’iconografia del quadro vede il Santo benedettino, discepolo di San Benedetto e compagno di San Placido, sedere sulla cattedra abbaziale del monastero di Montecassino; la devozione a San Mauro era poi alimentata dai numerosi miracoli a favore degli infermi operati dal Santo sia in vita che dopo la sua morte.
In quest’opera, che richiama in più parti il San Benedetto in trono tra i Santi Placido e Mauro eseguito dal Salerno a Polizzi Generosa nel 1611, il Santo abbate è raffigurato assiso sulla cattedra posta su due gradini ed inquadrata fra due colonne; dietro le sue spalle un elegante baldacchino fa da sfondo alla scena, mentre due piccoli angeli reggono sul capo di San Mauro la mitra abbaziale. La medesima posizione del Santo, gli angeli reggi mitra e gli stilemi del trono contribuiscono ad avvicinare questo dipinto a quello di Polizzi, avvalorandone l’attribuzione al pittore gangitano.
Anche qui non mancano però i riferimenti ai maestri, soprattutto a Giuseppe Alvino del quale il Salerno sembra riprendere, adattandolo, il San Cataldo dipinto dal pittore palermitano nel 1595 per l’omonima chiesa di Enna. Di grande rilievo nel San Mauro Abbate di Petralia è infine l’estrema cura con la quale il pittore gangitano tratta i particolari ornamentali della veste pastorale e della mitra, riccamente definiti con gioielli ed ori e ricami broccati.
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Olio su tela cm. 280 x 200
Iscrizioni:
Provenienza: ubicazione originaria
Variamente attribuito a Gaspare Vazzano o, più genericamente, allo Zoppo di Gangi, il dipinto può essere ricondotto alla mano di Giuseppe Salerno soprattutto per una serie di riferimenti stilistici di quest’opera con altre opere certe dell’artista gangitano, quali il Miracolo dei diecimila Martiri di Gangi e la Natività con il Trionfo dell’Eucarestia di Polizzi Generosa.
L’iconografia è quella che fa riferimento all’Andata al calvario dipinta da Raffaello, fra il 1515 ed il 1571, per la chiesa di Santa Maria dello Spasimo di Palermo ed oggi conservato al museo del Prado di Madrid; noto anche come Spasimo di Sicilia, il dipinto dell’Urbinate venne preso a modello da vari pittori ed incisori e venne diffuso in varie copie in tutta la Sicilia, da quella eseguita nel 1574 da Giovan Paolo Fonduli a Castelvetrano a quelle dipinte a Caccamo ed a Ciminna dal fiammingo Simone di Wobreck.
Documenti inediti danno il dipinto di Gangi presente nella chiesa del SS. Salvatore fin dal XVII secolo; la committenza di quest’opera potrebbe essere individuata nella figura della suora dipinta sulla destra che, come la Veronica, regge tra le mani il sudario di Cristo.
La scena raffigura una delle cadute di Gesù mentre si reca al Calvario, visibile nel paesaggio dipinto sullo sfondo, per la crocefissione; la figura del Cristo, caduto sotto il peso della croce, si pone come elemento centrale e separatore dei due gruppi di personaggi rappresentati sui due lati: sulla destra stà infatti il gruppo delle dolenti con la Vergine Addolorata mentre sulla sinistra stanno i carnefici che, con particolare durezza, incitano Gesù ad alzarsi, dopo aver obbligato il Cireneo, raffigurato al centro, a farsi carico della croce. Il Pretore ed un gruppo di sacerdoti giudei assistono alla scena da una quinta architettonica posta sulla destra mentre sulla sinistra un soldato a cavallo apre il corteo recando una bandiera spiegata. Sullo sfondo un altro corteo conduce i due ladroni verso il Golgota.
Di particolare interesse sono i volti rattristati delle dolenti e, di contro, quelli accigliati degli aguzzini. Di pregio è la figura dell’aguzzino sulla sinistra che, posto di spalle, tira la fune con la quale è legato il Cristo.
Il recente restauro dell’opera, eseguito in occasione della mostra Vulgo dicto lu Zoppo di Gangi svoltasi nel 1997, ha ridato lucentezza ed armoniosità al dipinto del quale è stata anche recuperata la forma centinata.
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Olio su tela cm. 220 x 160
Iscrizioni:
Provenienza: ubicazione originaria
Il tema iconografico dei Santi Martiri deriva direttamente dalla cultura religiosa tridentina che, nella sua spinta controriformista, aveva promosso proprio i martìri come soggetto di particolare devozione. Ed è probabile che questo soggetto sia stato accolto nella chiesa di San Cataldo, in Gangi, fin dai primi anni post conciliari e che, dati i suoi rapporti con la Confraternita qui presente, il Salerno sia stato incaricato dell’esecuzione del dipinto che, fin dalla sua realizzazione, venne posto in uno degli altari della chiesa.
E’ alquanto verosimile che per la realizzazione di quest’opera l’artista abbia preso a modello I Diecimila Martiri eseguito da Martino Russitto ad Isnello nel 1616 risolvendolo però a suo modo, rielaborandone e reinventandone la composizione; ed è certo che il Salerno abbia anche seguito un testo di Ottavio Potenzano edito nel 1600 titolato Poema sacro della passione et morte dei Santi Dieci Mila Martiri, come appare dal confronto fra il dipinto ed alcune parti del testo stesso.
La scena, raffigurata in un contesto naturalistico, mostra una profonda prospettiva costruita con gli alberi ai quali sono appesi i Santi Martiri, mentre una folta schiera di altri martirizzati vengono condotti da un drappello di soldati. Al centro un bellissimo angelo prepara ai Martiri la strada verso il cielo, mentre dall’alto il Cristo appare in uno squarcio delle nubi.
In primo piano alcuni carnefici legano alla croce un altro Martire mentre un cavaliere, di spalle, assiste alla scena; un cesto di vimini finemente disegnato contiene gli attrezzi del martirio.
Sullo sfondo rischiarato da un bagliore di luce risaltano nitide le figure dei Martiri già crocefissi, tra un via vai di soldati in una atmosfera concitata e drammatica. E’ probabile che in questo dipinto il Salerno abbia attinto dalla cultura figurativa siciliana tra Cinque e Seicento, soprattutto dall’Alvino e dal Paladini.
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Olio su tela cm. 500 x 400
Iscrizioni:
Provenienza: ubicazione originaria
Imponente per le sue rilevanti dimensioni (metri 5 x 4) oltre che per l’intensa carica espressiva e per l’alto valore figurativo, la tela del Giudizio Universale rappresenta senza dubbio il capolavoro di Giuseppe Salerno, un vero trattato di teologia. Per la particolarità del tema affrontato dall’artista e per la originalità della composizione l’opera può essere considerata come uno dei maggiori capolavori dell’arte figurativa religiosa siciliana della prima metà del Seicento.
Commissionato nel 1629 dal parroco della chiesa Madre di Gangi don Giuseppe Puccio, probabilmente in seguito ai lavori di ristrutturazione che qualche anno prima (1619) avevano dato una più imponente configurazione all’edificio religioso, o come monito alla popolazione locale dopo l’evento catastrofico della peste (1624) scoppiata in tutta l’Isola, il Giudizio Universale racchiude in se la complessa e dotta elaborazione, fatta di continui riferimenti alle Sacre Scritture vetero e neotestamentarie, che vide il Salerno (sotto la guida del Puccio) tradurre in pittura un tema di così grande complessità teologica. Dal punto di vista figurativo il dipinto dell’artista gangitano presenta numerose innovazioni compositive che lo distaccano dal modello michelangiolesco della Cappella Sistina al quale, varie volte, l’opera del Salerno è stata accostata e dal quale, tuttavia, lo stesso autore sembra aver tratto alcune citazioni. Una inedita lettura teologico-artistica dell’opera, effettuata in occasione della mostra Vulgo dicto lu Zoppo di Gangi tenutasi nel paese natìo dei due Zoppo nel 1997, ha aperto ad una inconsueta ma particolare interpretazione del dipinto magistralmente descritta nella Parusia per il Giudizio Universale secondo lo “Zoppo di Gangi” Giuseppe Salerno.
Impostata su una partizione a più registri orizzontali e verticali che supera il consolidato schema a due registri sovrapposti, la traduzione pittorica del tema del Giudizio Universale, estremamente complessa e dotta, portò il Salerno ad una composizione a tutto campo nella quale personaggi e figure si intrecciano nella visione biblica dell’evento. In alto il Cristo Giudice racchiuso dentro una mandorla di luce sovrasta la schiera dei Santi e degli Apostoli mentre la Vergine, con accanto San Giuseppe e dall’altro lato San Giovanni Battista, intercede presso il Figlio. Intorno al Redentore angeli recano i simboli della passione mentre al centro, sotto il trono Divino, una schiera di bimbi reca in mano spade e coltelli, evidente allusione alla strage degli innocenti.
Al centro della tela alcuni angeli suonano le trombe del giudizio mentre altri recano cartigli ed un libro aperto. Sulla sinistra una lunga schiera di anime sale verso la porta del paradiso dove ad attenderli è San Pietro mentre l’Arcangelo Michele, poco più in basso, la protegge dal maligno. In basso è la scena del viaggio dei dannati sulla barca infernale in direzione della bocca del Leviatan, a destra; sul naviglio si scorgono nitidamente vescovi, cardinali, notai ed ogni sorta di esseri umani mentre poco più sopra alcuni dannati patiscono le pene rapportate al tipo di peccato commesso in vita. A sinistra la resurrezione dei morti chiude il ciclo.
Alcuni hanno voluto identificare il volto dell’artista gangitano in quello raffigurato nella pelle tenuta dalle mani di San Bartolomeo apostolo.
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